martedì 29 maggio 2007

Giove Statore

"Iuppiter, tuis" inquit "iussus auibus hic in Palatio prima urbi fundamenta ieci. Arcem iam scelere emptam Sabini habent; inde huc armati superata media valle tendunt; at tu, pater deum hominumque, hinc saltem arce hostes; deme terrorem Romanis fugamque foedam siste. Hic ego tibi templum Statori Iovi, quod monumentum sit posteris tua praesenti ope seruatam urbem esse, voveo."



Haec precatus, ueluti sensisset auditas preces, "Hinc" inquit, "Romani, Iuppiter optimus maximus

resistere atque iterare pugnam iubet.
"





 Tito Livio

 Ab Urbe Condita Libri

 I, 12

giovedì 17 maggio 2007

lunedì 14 maggio 2007

domenica 13 maggio 2007

Horizon








(fa un passo indietro per osservare meglio i quadri)
. No, non sono bello, non sono per niente bello! (Stacca i quadri, li getta per terra con ira, va verso lo specchio) Sono loro che sono belli! Avevo torto! Ah, vorrei essere come loro! Non ho niente in testa, neanche un corno! Com'è brutta la mia fronte così piatta, liscia... ci vorrebbero un corno o due, così anche i miei tratti risalterebbero meglio... Chissà, forse spunteranno, e allora on mi sentirò più così umiliato, potrò andare a raggiungerli... Ma no... le corna non spuntano... (Si guarda le palpe delle mani) Le mie mani sono sudate... che schifo! Chissà se diventeranno grosse, rugose... (Si toglie la giacca, sbottona la camicia, osserva il petto allo specchio) Ho la pelle tutta flaccida. Ah, questo corpo così bianco e peloso! Come vorrei avere una pelle rubida, e quel magnifico color verde scuro... come vorrei avere un nudo decente, senza peli, come il loro! (Ascolta i barriti) Il loro canto è attraente, forse un po' rauco, ma certo attraente! Se potessi anch'io cantare così! (Cerca di imitarli) Aah! aah! Brr! No, non è così! Proviamo più forte! Aah! aah! Brr! No, non è così! Troppo debole, manca di forza, di vigore! Non riesco a barrirre! Urlo soltanto! Aah! aah! Brr!... ma gli urli non sono barriti! Come mi sento in colpa! Avrei dovuto seguirli quand'ero ancora in tempo! Troppo tardi, adesso! E' finita, sono un mostro! Sono un mostro! Non diventerò mai più un rinoceronte, mai, mai, mai!... Non posso più cambiare. Vorrei tanto, ma non posso, non posso! E non posso più sopportarmi, mi faccio schifo, ho vergogna di me stesso! (Si volta, spalle allo specchio) Come sono brutto! Guai a colui che vuole conservare la sua originalità! (Ha un brusco sussulto) E allora, tanto peggio! Mi difenderò contro tutti! La mia carabina, la mia carabina! (Si volta verso la parete del fondo dove si vedono le teste di rinoceronte. Urlando) Contro tutti quanti mi difenderò, contro tutti quanti! Sono l'ultimo uomo, e lo resterò fino alla fine! Io non mi arrendo! Non mi arrendo!




Sipario.                                                                          

Eugène Ionesco













Senza titolo

Perché con occhi chiusi?

Perché con bocca che non parla?



Voglio guardarti, voglio nominarti.

Voglio fissarti e toccarti:



Mio sentirmi che ti parlo,

Mio vedermi che ti vedo



Dirti - sei questa cosa hai questo nome.

Al canto che tace non credo.



Così in me ti distruggo.

Non sarò, tu sarai:



Ti inseguo e ti sfuggo,

Bella vita che te ne vai.



                             
Giovanni Giudici



giovedì 3 maggio 2007

Temporale



Un bubbolio lontano
...



Rosseggia l'orizzonte,

come affocato, a mare;

nero di
pece
, a monte,

stracci di nubi chiare;

tra il nero un casolare:

un'ala di gabbiano



                      
Temporale      Giovanni Pascoli

mercoledì 2 maggio 2007

Orfeo ed Euridice

Inde per inmensum croceo velatus amictu

aethera digreditur Ciconumque Hymenaeus ad oras

tendit et Orphea nequiquam voce vocatur.

adfuit ille quidem, sed nec sollemnia verba

nec laetos vultus nec felix attulit omen.

fax quoque, quam tenuit, lacrimoso stridula fumo

usque fuit nullosque invenit motibus ignes.

exitus auspicio gravior: nam nupta per herbas

dum nova naiadum turba comitata vagatur,

occidit in talum serpentis dente recepto.

quam satis ad superas postquam Rhodopeius auras

deflevit vates, ne non temptaret et umbras,

ad Styga Taenaria est ausus descendere porta

perque leves populos simulacraque functa sepulcro

Persephonen adiit inamoenaque regna tenentem

umbrarum dominum pulsisque ad carmina nervis

sic ait: «o positi sub terra numina mundi,

in quem reccidimus, quicquid mortale creamur,

si licet et falsi positis ambagibus oris

vera loqui sinitis, non huc, ut opaca viderem

Tartara, descendi, nec uti villosa colubris

terna Medusaei vincirem guttura monstri:

causa viae est coniunx, in quam calcata venenum

vipera diffudit crescentesque abstulit annos.

posse pati volui nec me temptasse negabo:

vicit Amor. supera deus hic bene notus in ora est;

an sit et hic, dubito: sed et hic tamen auguror esse,

famaque si veteris non est mentita rapinae,

vos quoque iunxit Amor. per ego haec loca plena timoris,

per Chaos hoc ingens vastique silentia regni,

Eurydices, oro, properata retexite fata.

omnia debemur vobis, paulumque morati

serius aut citius sedem properamus ad unam.

tendimus huc omnes, haec est domus ultima, vosque

humani generis longissima regna tenetis.

haec quoque, cum iustos matura peregerit annos,

iuris erit vestri: pro munere poscimus usum;

quodsi fata negant veniam pro coniuge, certum est

nolle redire mihi: leto gaudete duorum.»

Talia dicentem nervosque ad verba moventem

exsangues flebant animae; nec Tantalus undam

captavit refugam, stupuitque Ixionis orbis,

nec carpsere iecur volucres, urnisque vacarunt

Belides, inque tuo sedisti, Sisyphe, saxo.

tunc primum lacrimis victarum carmine fama est

Eumenidum maduisse genas, nec regia coniunx

sustinet oranti nec, qui regit ima, negare,

Eurydicenque vocant: umbras erat illa recentes

inter et incessit passu de vulnere tardo.

hanc simul et legem Rhodopeius accipit heros,

ne flectat retro sua lumina, donec Avernas

exierit valles; aut inrita dona futura.

carpitur adclivis per muta silentia trames,

arduus, obscurus, caligine densus opaca,

nec procul afuerunt telluris margine summae:

hic, ne deficeret, metuens avidusque videndi

flexit amans oculos, et protinus illa relapsa est,

bracchiaque intendens prendique et prendere certans

nil nisi cedentes infelix arripit auras.

iamque iterum moriens non est de coniuge quicquam

questa suo (quid enim nisi se quereretur amatam?)

supremumque «vale,» quod iam vix auribus ille

acciperet, dixit revolutaque rursus eodem est.

Non aliter stupuit gemina nece coniugis Orpheus,

quam tria qui timidus, medio portante catenas,

colla canis vidit, quem non pavor ante reliquit,

quam natura prior saxo per corpus oborto,

quique in se crimen traxit voluitque videri

Olenos esse nocens, tuque, o confisa figurae,

infelix Lethaea, tuae, iunctissima quondam

pectora, nunc lapides, quos umida sustinet Ide.

orantem frustraque iterum transire volentem

portitor arcuerat: septem tamen ille diebus

squalidus in ripa Cereris sine munere sedit;

cura dolorque animi lacrimaeque alimenta fuere.

esse deos Erebi crudeles questus, in altam

se recipit Rhodopen pulsumque aquilonibus Haemum.

Tertius aequoreis inclusum Piscibus annum

finierat Titan, omnemque refugerat Orpheus

femineam Venerem, seu quod male cesserat illi,

sive fidem dederat; multas tamen ardor habebat

iungere se vati, multae doluere repulsae.

ille etiam Thracum populis fuit auctor amorem

in teneros transferre mares citraque iuventam

aetatis breve ver et primos carpere flores.






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Di lì, avvolto nel suo mantello dorato, se ne andò Imeneo

per l'etere infinito, dirigendosi verso la terra

dei Cìconi, dove la voce di Orfeo lo invocava invano.

Invano, sì, perché il dio venne, ma senza le parole di rito,

senza letizia in volto, senza presagi propizi.

Persino la fiaccola che impugnava sprigionò soltanto fumo,

provocando lacrime, e, per quanto agitata, non levò mai fiamme.

Presagio infausto di peggiore evento: la giovane sposa,

mentre tra i prati vagava in compagnia d'uno stuolo

di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente.

A lungo sotto la volta del cielo la pianse il poeta

del Ròdope, ma per saggiare anche il mondo dei morti,

non esitò a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro:

tra folle irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse

alla presenza di Persefone e del signore che regge

lo squallido regno dei morti. Intonando al canto le corde

della lira, così disse: «O dei, che vivete nel mondo degl'Inferi,

dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire,

se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi

di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare

le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,

irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa.

Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,

in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.

Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:

ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;

se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:

se non è inventata la novella di quell'antico rapimento,

anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi,

per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno,

vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!

Tutto vi dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra,

presto o tardi tutti precipitiamo in quest'unico luogo.

Qui tutti noi siamo diretti; questa è l'ultima dimora, e qui

sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.

Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto

il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.

Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo:

io non me ne andrò: della morte d'entrambi godrete!».

Mentre così si esprimeva, accompagnato dal suono della lira,

le anime esangui piangevano; Tantalo tralasciò d'afferrare

l'acqua che gli sfuggiva, la ruota d'Issìone s'arrestò stupita,

gli avvoltoi più non rosero il fegato a Tizio, deposero l'urna

le nipoti di Belo e tu, Sisifo, sedesti sul tuo macigno.

Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta

si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore,

regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera,

e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava,

e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.

Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l'ordine

di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito

dalle valli dell'Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.

In un silenzio di tomba s'inerpicano su per un sentiero

scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.

E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,

quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,

l'innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell'Averno;

cercò, sì, tendendo le braccia, d'afferrarlo ed essere afferrata,

ma null'altro strinse, ahimè, che l'aria sfuggente.

Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero

(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d'essere amata?);

per l'ultima volta gli disse 'addio', un addio che alle sue orecchie

giunse appena, e ripiombò nell'abisso dal quale saliva.

Rimase impietrito Orfeo per la doppia morte della moglie,

così come colui che fu terrorizzato nel vedere Cerbero

con la testa di mezzo incatenata, e il cui terrore non cessò

finché dall'avita natura il suo corpo non fu mutato in pietra;

o come Oleno che si addossò la colpa e volle

passare per reo; o te, sventurata Letea, troppo innamorata

della tua bellezza: cuori indivisi un tempo nell'amore,

ora soltanto rocce che si ergono tra i ruscelli dell'Ida.

Invano Orfeo scongiurò Caronte di traghettarlo un'altra volta:

il nocchiero lo scacciò. Per sette giorni rimase lì

accasciato sulla riva, senza toccare alcun dono di Cerere:

dolore, angoscia e lacrime furono il suo unico cibo.

Poi, dopo aver maledetto la crudeltà dei numi dell'Averno,

si ritirò sull'alto Ròdope e sull'Emo battuto dai venti.

Per tre volte il Sole aveva concluso l'anno, finendo nel segno

acquatico dei Pesci, e per tutto questo tempo Orfeo non aveva

amato altre donne, forse per il dolore provato, forse

per averne fatto voto. Eppure molte erano le donne ansiose

d'unirsi al poeta, ma altrettante piansero d'essere respinte.

Gli uomini della Tracia poi ne trassero pretesto per stornare

l'amore verso i fanciulli, cogliendo i primi fiori

di quella breve primavera della vita che è l'adolescenza.

Silence

Words like violence

Break the silence

Come crashing in

Into my little world

Painful to me

Pierce right through me

Can't you understand

Oh my little girl





All I ever wanted

All I ever needed

Is here in my arms

Words are very unnecessary

They can only do harm




Vows are spoken

To be broken

Feelings are intense

Words are trivial

Pleasures remain

So does the pain

Words are meaningless

And forgettable





All I ever wanted

All I ever needed

Is here in my arms

Words are very unnecessary

They can only do harm



Depeche Mode

Enjoy the Silence